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Maria Antonietta sbadigliò cercando di aprire un occhio gonfio di sonno, il sole riflesso nella specchiera l'accecò per un attimo. Arrivò la colazione: latte di mucca appena munto, schiumoso, in una tazza di porcellana con le sue iniziali. Caffè bollente. Lo bevve sbocconcellando croissants appena sfornati per lei. Passò velocemente alle preghiere raccogliendosi in silenzio: i ricordi di Hofburg e di Schönbrunn le trafissero lo sterno. Erano trascorsi pochi mesi da che aveva lasciato Vienna e la separazione doleva. In Francia era chiamata con distacco "l'austriaca". Di questo, in fondo, provava orgoglio ma la sua, pur invidiabile, nuova condizione aveva un caro prezzo: a Versailles cercava di sentirsi in famiglia senza riuscirci. Chissà se avrebbe finito per abituarsi. Quindici anni! La vita sembrava lunga e lenta. Si alzò facendosi il segno della croce. «Andiamo» disse e le cameriere le fecero strada aprendo una porta mimetizzata nella tappezzeria, con una chiave segreta, quella dei corridoi particolari del castello, dono che le figlie di Luigi XV avevano fatto a Maria Antonietta appena arrivata. Con quella la Delfina, senza essere vista ne seguita, poteva raggiungere le stanze delle zie, anche se solo madame Vittoria l'aveva con affetto autorizzata a trattenersi. Entrando nell'appartamento di tante Vittoria, la Delfina le vide tutte e tre sedute sul divano. Le mesdames di Francia, tre grassocce zitellone oltre i quaranta, precocemente invecchiate, si aggiravano come scuri uccelli per la corte, intrigando e lavorando a maglia. Alla nipote avevano insegnato l'uncinetto, col quale tentava di fare per il nonno un panciotto che non riusciva a terminare. Un tempo il Beneamato trascorreva la mattina con le figlie preparando loro il caffè e le zie andavano ogni sera a trovare il padre. Alle sei, l'ora in cui al re venivano tolti gli stivali, indossavano enormi paniers, giubbe ricamate d'oro, mantelli di nero taffetas e sfilavano con cavalieri, dame, paggi, scudieri, guardiani con potenti fiaccole, per corridoi e scale. Il pigro palazzo sembrava animarsi per incanto. Attraversavano il salone di Venere, quello di Diana con gli imperatori, il trono in porpora solenne, scintillavano le fiamme negli specchi della galleria e finalmente la grande camera dove la corte assisteva alle intimità del sovrano. Lì, quel Dio onnipotente, avanzava poggiando le labbra sulla loro fronte per deporvi un bacio. E subito rientravano. Che tempi meravigliosi! Che rimpianto! Quando in scena era arrivata la favorita, una svergognata di infimo rango, le signore di Francia sentirono di avere perso il solo genitore rimasto. Il giorno che madame du Barry, dopo aver soggiornato dal valletto di camera del re, ricevette l'onore di una migliore sistemazione, toccò a Vittoria cedere alcune sale: per quanto abituata a traslochi e ristrutturazioni, madame Vittoria non glielo perdonò mai e, senza dubbio, questo episodio fu di importanza basilare per cementare ed espandere a corte le numerose fazioni antibarryste. Maria Antonietta, su una poltroncina dai braccioli imbottiti, ora guardava le tre aspettando. Sollevata Maria Antonietta salutò con un sorriso e, dopo un inchino, si avviò dal parrucchiere che come ogni mattina le avrebbe sistemato i capelli sulla sommità del capo. Nella cerchia delle zie la ragazzina era entrata per placare la nostalgia, alla ricerca di un affetto: le piaceva che avessero l'età di sua madre; a loro volta le mesdames avevano trovato in lei un appoggio utilissimo a esercitare l'ostilità sottile e implacabile nei confronti dell' amante del padre. Di loro il Beneamato non era mai andato fiero, pur se in generale non considerava le donne a meno che non fossero giovani e sensuali. A ciascuna aveva affibbiato un nomignolo: "Porcellino" a Vittoria, "Straccio" ad Adelaide, "Pezzuola" a Sofia. Figlie di re senza ulteriori fortune, ammesso che l'esserlo lo sia, erano state afflitte da un'educazione affilata come uno scudiscio. Vittoria, la più gradevole fisicamente ed espansiva, aveva trascorso l'infanzia a 300 chilometri da Versailles nell'abbazia di Fontévrault, prescelta perché essendo in provincia permetteva di risparmiare alle casse regie in difficoltà, ma custodiva le tombe di Riccardo Cuor di Leone e di Isabella di Angoulême. Lei ne ricordava il chiostro, i lunghi colonnati in ombra, il risuonare di passi misteriosi, i sotterranei con le tombe delle monache dove i bambini venivano condotti a fare penitenza. "Dio mio dove sei?!" aveva un giorno implorato al buio, in ginocchio e con le mani sulla testa, mentre nei sotterranei qualcuno si lamentava farneticando. Era il giardiniere del convento la cui agonia sovrastava le preghiere: ancora oggi Vittoria portava i segni di quella brutta esperienza dormendo male, eccitandosi per nulla, cercando di affogare le crisi di panico nella buona tavola senza badare se ingrassava, preoccupata solo di osservare, a suo modo, digiuni e quaresime. Sofia era brutta al punto da destare ribrezzo o pietà, la sua alterigia nascondeva diffidenza, durezza sorprendente d'animo, dettata dalla scarsa considerazione di sé e dalla paura: percorreva i lunghi corridoi in fretta e non rivolgeva la parola a nessuno, o quasi. Per evitare di essere interpellata aveva preso l'abitudine di guardare di sguincio fingendo di non vedere gli altri. Le dava fastidio persino madame Campan, la lettrice umile e affezionata che consumava per la corte i propri polmoni. Soltanto i temporali sapevano domare Sofia. «Madame Campan vi prego, fermatevi... leggete leggete, mi farà bene...» e le afferrava le mani in preda al terrore durante un fragoroso acquazzone estivo, ma appena spuntato l'arcobaleno: «C'è il sole, nostro signore ci ha graziate... potete andare adesso.» Adelaide aveva una personalità spiccata, un temperamento forte e ostinato che si era manifestato fin dall'infanzia. Raccontavano che il maestro di danza, unico insegnante di arti ricreative che avesse potuto seguirle a Fontévrault, stava un giorno istruendola su un ballo in voga, il minuetto color di rosa. Adelaide, che avrebbe preferito fosse chiamato in altro modo, lo canzonò: Adelaide per tutta risposta lasciò la lezione. L'ostinazione della principessa ora rendeva il gioco serio: allarmate dalla gravità del caso, le suore indissero un'assemblea nella quale si schierarono, manco a dirlo, dalla parte della figlia del re; dopo mezz'ora tornarono nel salone da ballo dove con ridicola austerità si misero in cerchio battendo le mani a tempo, sostenendo Adelaide che al centro gridava: Adelaide era stata poi quella che si era opposta con decisione al matrimonio tra Luigi Augusto e "l'austriaca". Essendo però intelligente e avendo la malleabilità di un politico, pur mantenendo una rivalità e un'avversione tacita verso la straniera, coltivò con diplomazia la sua amicizia pensando che poteva essere conveniente: anzi fu proprio sotto la sua guida che le zie manovrarono perché la ragazzina cadesse sotto la loro influenza. La cosa non sfuggì all'ambasciatore Mercy Argenteau che preoccupato scrisse alla madre, l'imperatrice Maria Teresa: "Le mesdames tantes amano immischiarsi in piccoli intrighi, pericoloso sarebbe se vi attirassero anche la Delfina". *** Quando Luigi XV entrò nella sala da pranzo, arredata in verde, con arazzi ispirati alla caccia, trovò le donne ad attenderlo. Sedette a capo tavola, Adelaide e Sofia alla sua destra, Maria Antonietta e Vittoria alla sinistra. Durante quel pasto informale, con una servitù ridotta al minimo, dimezzate le stoviglie in porcellana, i camerieri disposero piatti per il brodo, per gli antipasti, per gli arrosti, per le insalate e per la frutta. Il re si fece portare un uovo alla coque. L'addetto al servizio mise il portauovo di fronte a lui, porse una forchetta che il Beneamato prese e capovolse facendola oscillare col manico verso l'oggetto. Silenzio. Finalmente sferrò il colpo. Iniziarono. Il sovrano sapeva che l' incontro andava oltre il piacere del trovarsi, conosceva la seccatura a cui far fronte, ma volutamente ignorò l'argomento e portò il discorso sullo stile del servizio e l'etichetta. Madame Vittoria celò un risolino, lo stesso fece Adelaide. A Sofia sfuggì una risata imprevista, fulminea come uno starnuto, che accentuò la sua altezzosa bruttezza. La giovinetta prese fiato, si schiarì la voce e bevve un sorso d'acqua. Dietro consiglio del suo ambasciatore Mercy Argenteau aveva voluto quell'incontro per una ragione precisa: la contessa Du Grammont, che faceva parte della cerchia della Delfina, durante uno spettacolo teatrale si era rifiutata di cedere il posto alla discussa Madame Du Barry, la favorita se ne era lamentata con il re e la contessa Du Grammont era stata allontanata dalla corte. Personaggio di secondo piano, la contessa era però sorella del duca di Choiseul, ministro degli esteri: implicazione di grande rilievo. Con Antonietta Mercy Argenteau si era raccomandato di usare molto tatto e diplomazia, ma bisognava pur parlarne giacché anche il maresciallo di Beauvau e la duchessa di Choiseul avevano preferito rinunciare agli onori dell'intima società reale, pur di non trovarsi accanto quella donna: troppo. «Monsignore,» esordì la Delfina «sono veramente dispiaciuta per il comportamento assolutamente esecrabile della contessa Du Grammont, riconosco che essa ha sbagliato, sia nei vostri confronti che nei confronti di Madame. Tuttavia...» Il re bevve d'un fiato, sul volto lungo, grassoccio e cascante, si dipinse un'espressione di imbarazzo che rese più a punta il suo mento. Gli occhi di Adelaide gli comunicarono scetticismo e rampogna e si zittì. Adelaide, Vittoria e Sofia, si alzarono. Luigi XV le osservò confrontandole con la giovinezza radiosa dell'amante e gli apparvero senza speranza. Sospirò scuotendo la testa, pensò che in fondo non aveva sbagliato Luisa, quarta di loro, a farsi monaca. Aveva lasciato il mondo per la pace di Dio. Di lei restava a Versailles soltanto qualche mesto ritratto. Cresciuta nell'abbazia di Fontévrault dagli undici mesi ai tredici anni, si era sentita a disagio quando, rientrata in famiglia per un breve periodo, era stata presa nel vortice della corte. Suo padre, sua madre, i suoi parenti, mai venuti a trovarla da bambina, persino le sorelle più grandi dalle quali era stata separata, erano estranei. Non capiva le loro abitudini. La reggia con le stanze labirintiche, gli interminabili corridoi, faceva paura. Malformata dalla nascita, piccola piccola, si sentiva un errore di natura al cospetto della favorita e provava vergogna di sé, dell'altra e del proprio padre. Sapeva a malapena leggere, non conosceva l'etichetta, non apprezzava i piaceri mondani ma rammentava l'odore delle monache, il caldo della loro pelle, il silenzio del chiostro e stava male. Ne parlò con l'arcivescovo di Parigi accoratamente. Lui l'ascoltò. Così nell'aprile del 1770, poco prima del matrimonio di Maria Antonietta, Luisa prese la decisione di rifugiarsi nel convento carmelitano di Saint Denis, tra i più rigidi e spartani. Solo suo padre ne era al corrente: consenziente e smarrito non ne fece parola a nessuno. Appresa la scelta le sorelle sbalordirono: "Non è da noi che abita la felicità". La figlia di Luigi XV assunse il nome di suor Teresa di Sant'Agostino. Si disse che era stata illuminata da una grande vocazione, che avrebbe dovuto essere santificata, che aveva patito per essere ultima per rango: in realtà aveva sofferto tanto di solitudine, di segregazione dal mondo. Solo suor Paris de Soulanges aveva rappresentato il caldo seno di una madre e ora non voleva altro. La delfina uscì dalla sala a testa alta, nello sguardo la luce del successo ottenuto, il cuore gonfio di orgoglio. Si proponeva, quella sera stessa, di scrivere alla mamma: non c'era dubbio alcuno, le avrebbe detto, che le sue qualità politiche e diplomatiche erano impareggiabili e che sarebbe diventata un giorno come lei, una grandissima regina. ¬ I Racconti di Versailles (1) -
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