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AMORI impossibili.
La mia vita ne è stata costellata.
Amori insaziabili.
Amori impigriti dal tempo.
Amori rabbiosi.
Amori vendicativi.
Amori troppo saggi.
Amori troppo avventati.
Tutti impossibili allo stesso modo, perché nessuno di essi sarebbe sopravvissuto allo scorrere incessante del tempo.
Ma il primo sì, invece; il primo e l'unico.
L'unico e il solo che, naufrago dei giorni lontani della mia infanzia, mi siede accanto e come un'ombra mi avvolge tutto nelle spire dei suoi raggi lunari.
L'ho amata, con l'amore ingenuo e inconsapevole della mia breve età.
Ho amato la sua diversità.
Ho amato l'impossibilità di un congiungimento.
Ho amato la delizia del tormento per questa distanza incolmabile.
Aveva bussato alle porte. Una dopo l'altra.
Vestita di umidi cenci impregnati di fiocchi di neve.
Ammantata della sua povertà.
Abbigliata delle sue stranezze.
Avvolta in un mantello nero e lacero.
La piccola mano sporta in avanti; il palmo rivolto verso l'alto alla ricerca di una pietà che le veniva negata.
Tutto le veniva negato, e quella mano dal palmo aperto verso l'alto afferrava solo inconsistenti fiocchi di neve, che subito si scioglievano lasciando per ultimo, solamente, un vuoto insaziabile.
Aveva bussato ma non aveva ottenuto alcuna risposta.
Non uno rispose alle sue suppliche.
Nessuno si era accostato alla finestra per vedere chi fosse.
Tutti lo sapevano.
Erano già d'accordo sul da farsi.
Tutti erano decisi a far finta di niente, a considerare quel disperato e dolce pigolio contro il legno solo l'effetto della tormenta e niente di più.
Infine, bussò anche alla nostra porta.
Noi eravamo raccolti attorno alla tavola; una grande famiglia riunita.
E loro, mangiando con ingordigia, parlavano e ridevano smodatamente per coprire, occultare, cancellare, soffocare la sua richiesta mentre io lo sentivo, lo sentivo lo stesso quel pigolio: lo struggente pigolio di un animale ferito, un animale che ha perduto tutto e che cerca solo un po' di conforto, cerca solo una mano che lo aiuti a rialzarsi, a ritrovare equilibrio.
Lo udii, tra il vociare frastornante e le risa stridule, lo udii ancora una volta, ma non potei fare niente se non rimanere seduto sulla sedia, trangugiando a forza un piatto di minestra, mentre il mio spirito la rincorreva per i boschi, le dava conforto, le porgeva una mano.
Strega.
Nancy la strega.
E' così che la chiamavano tutti.
Quanto disprezzo, quanta paura, quanta diffidenza, quanto odio, quante barriere insormontabili erano rapprese in quelle semplici parole.
Nancy la strega.
Nancy la figlia di nessuno.
Nancy la figlia del vento.
Nancy che danza al chiaro di luna.
Nancy la fattucchiera.
Magie sacrileghe e sortilegi demoniaci.
Abitava lontano, Nancy, in una capanna sperduta nel bosco.
Tutti la disprezzavano apertamente, non disdegnando di ululare quotidianamente la loro indignazione: "Al rogo! Al rogo!"
Tutti se ne tenevano ben lontani; cambiavano strada, la insultavano, la schernivano, la deridevano.
Non la toccavano, però, non l'avevano mai fatto; ne provavano troppa paura e per questo si limitavano a frasi ingiuriose e velenose.
Anche se poi, di nascosto, tutti le si rivolgevano in cerca di rimedi per le loro pene d'amore.
Era sempre stato così, e avrebbe potuto andare avanti nello stesso identico modo per molto altro tempo, se non fosse accaduta quella brutta storia.
A volte, ancor oggi, mi capita di vederla, di scorgere il suo fantasma vagare per queste strade imbiancate di neve.
Alta, possente, le rutilanti chiome lasciate libere di ondeggiare, come stendardi al vento.
Le labbra purpuree, gli occhi grandi.
Lo sguardo ramingo di un gatto randagio.
I movimenti aggraziati.
La vedo, ancora ora, danzare alla luna.
In verità la scorsi solo una volta, ma ogni suo movimento, ogni mutamento del suo volto mi sono rimasti impressi indelebilmente nella memoria e me la figuro sempre così: i sensi ammaliati e il corpo posseduto e lanciato in una frenetica danza.
Un inno alla libertà.
Ed ella mi appariva bellissima; libera, indomabile e bellissima.
John era morto.
John era un uomo dalla faccia rubiconda, la folta capigliatura sanguigna, un bel paio di baffi e due grandi occhi sperduti in artificiali paradisi di piacere.
Si era buttato nel fiume, John.
Si era buttato nel fiume perché folle d'amore per Amy.
Lui che non l'aveva mai neanche considerata.
Una follia, questa, che lo aveva mortalmente soggiogato al suo volere, istigandolo, infine, a porre termine alla sua stessa esistenza.
La colpa era di Amy che, a sua insaputa, aveva versato il distillato "D'amore eterno" nella sua birra ordinata al bar.
Amy ne aveva versato più delle due gocce consentite inderogabilmente da Nancy, e questo per John era risultato fatale, dal momento che, posseduto da un cieco e incontrollato furore, si era gettato fra le braccia acquose del suo Nirvana.
All'inizio la responsabilità era gravata tutta su Amy, annientata dal peso struggente della sua colpa, ma ben presto risentimento, dolore e rancore si avventarono tutti, rabbiosamente, su Nancy la strega, sommergendola e soffocandola.
Era il capro espiatorio ideale; così diversa da poter raccogliere in sé come un capiente otre, tutti i miasmi velenosi che ci tormentavano.
Tutte le nostre colpe, le nostre disgrazie, le nostre sfortune potevano tranquillamente ricadere su di lei, alleggerendo le nostre coscienze e dando un senso alla cattiva sorte che ci perseguitava.
Bruciarono tutto.
La piccola capanna sperduta nelle profondità del bosco prese fuoco; ardeva e ardeva, mentre le fiamme si spandevano, incontrollate, verso quel manto di stelle che stava a guardare lo scempio che veniva perpetuato sotto i suoi, placidi e immutabili, occhi.
Nessuno toccò Nancy, però, ne avevano tutti troppa paura, anche se ciò non impedì loro di scacciarla lontano, con cieca ira e innata cattiveria.
La cacciarono via nel crepuscolo morente di una rigida notte invernale, mentre fiocchi di neve iniziavano a frullare nell'aria.
Nancy vagò sperduta alla ricerca di una pietà che le veniva negata.
Bussò alle porte per un pezzo di pane e una coperta.
Nessuno rispose.
E Nancy, con il cuore gonfio e sfatto, imboccò la strada che porta fuori dal paese disperdendo le sue tracce nella neve fresca.
Quella sera ero deciso a trovarla.
Dopo aver racimolato un po' di pane, del vino e aver sgraffignato una coperta pesante, sgattaiolai fuori senza far rumore.
Appena fuori, però, presi a correre all'impazzata in suo soccorso, dirigendomi dove sapevo di poterla trovare e inoltrandomi, così, nel fitto del bosco.
Ruzzolavo a perdifiato nella fitta oscurità del bosco quando, finalmente e inaspettatamente, ella mi si parò innanzi agli increduli occhi, simile ad una visione fantasmagorica.
Era bellissima, magicamente avvolta dai raggi lunari, mentre danzava con movimenti aggraziati e fieri.
Rimasi a rimirarla estatico ed estasiato finché scorgendomi Nancy si arrestò di colpo.
"Perché sei venuto?"
Mi chiese con un'inflessione di sorpresa nel tono della voce.
Io, da parte mia, non riuscendo a parlare, mi limitai soltanto a porgerle le magre vivande e la pesante coperta che le avevo portato.
Lei mi sorrise avvicinandosi con passo lento e aggraziato.
"Ti ringrazio," mi sussurrò, la voce resa roca dall'emozione.
Quindi si chinò verso di me, poggiando un leggero bacio sulla mia fronte.
Poi, preso ciò che le offrivo, si volse verso l'oscurità e vi disparve dentro, come inghiottita dalla notte profonda.
Da quella notte non seppi più nulla di Nancy la strega.
Non so se sia ancora viva da qualche parte, in un'altra piccola capanna sperduta nel bosco.
Di lei mi rimane tutto.
La sua danza.
Il bacio leggero sulla mia fronte.
La sua diversità. La sua forza. La sua libertà.
Di lei ho conservato, racchiuso nel mio cuore, ogni singolo istante.
Ogni singolo istante di un amore impossibile.
Il mio primo, unico e solo amore impossibile.
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