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Un taxi si fermò ai margini del marciapiede con una manovra azzardata e repentina.
Subito ne uscì un'ombra scura come rincorsa dalle urla irritate e rabbiose dell'uomo alla guida.
Una sgommata rumorosa e acida.
La sagoma venne brevemente illuminata dalla luce accecante dei fari.
Poi più nulla.
La pioggia continuava a cadere battente.
L'oscurità era molle in quell'angolo di strada.
La luce elettrica inesistente.
Solo le luci al neon di piccoli negozi ingombri.
Luci mortalmente pallide e fredde.
Il via vai di veicoli era pressante e vizioso.
La sagoma invece restava perfettamente immobile come una foglia recisa dal ramo.
L'ora era tarda, notturna.
Il silenzio degli abitanti di quegli squallidi caseggiati rendeva evidente l'isolamento di quel cencio di vita abbandonato sul marciapiede.
Alcune macchine rallentavano per guardare meglio, forse alla ricerca di una compagnia estemporanea e facile.
Qualcuno si era addirittura fermato, per riprendere immediatamente a marciare dopo aver esaminato da vicino la merce in vendita.
Qualche colpo di clacson si perdeva nella notte.
D'un balzo, come se uno di tali colpi l'avesse ferita, quella marionetta si risvegliò cominciando ad agitarsi e a ondeggiare come ubriaca.
Era molle, priva di sostanza, mulinava nel vento.
Il freddo si faceva intenso.
Era inverno, dopotutto.
Non un inverno tenero.
Piccoli fiocchi di neve piroettavano nell'aria come leggiadre ballerine d'opera.
Volteggiavano, frullavano, si disfacevano.
Quell'ombra nella notte continuava, intanto, ad avanzare in quel pezzo di mondo fatto d'asfalto, di squallore, di freddo pungente, di luci al neon, di morte apparente, di colpi di clacson.
Camminava nel vuoto, non sembrava diretta in nessun posto.
Abiti leggeri.
Troppo.
Ma non tremava.
Non balbettava.
Non sussultava.
Un burattino di legno senza paura, senza coscienza, senza dimora.
Avanzava nel nulla, senz'armi, senza ricordi, senza passato; solo un lungo infinito presente senza un capo, senza una coda, senza un senso.
Di colpo, qualcosa però ne attira l'attenzione.
Qualcosa prende forma nei suoi pensieri, nel suo ondeggiare insensato.
Una luce accecante, fastidiosa.
Una scritta.
Una porta.
È come se dentro le si accendesse qualcosa, una risposta.
Finalmente ha scovato la sua meta.
Si ferma e si avvicina.
Inizia a bussare.
Bussare.
Bussare.
Bussare, come se stesse giocando.
E' tornata bambina.
Si vuol divertire.
Non è spaventata, non è disperata.
Vuole solo giocare.
- C'È QUALC...UNOOO UNOooo unooo
Urla a squarciagola e scoppia a ridere.
Poi smette all'improvviso, come ha iniziato.
Ha sentito rumori provenire dall'interno.
Qualcosa, qualcuno si muove.
E' pesante, sgraziato, incazzato.
Le labbra si storcono in un sorriso divertito.
La porta si apre di botto.
Di poco, una magra, sottile fessura.
Dentro il buio.
La luce fredda della scritta al neon illumina un piccolo occhio cattivo e affamato.
- CHE VUOI PUTTANA?!
Digrigna i denti affilati e pungenti.
Stringe il piccolo occhio cattivo.
Sputa saliva.
- VATTENE VIA O TI CONCIO PER LE FESTE! CAPITO?
Un piccolo lampo fugace e violento.
Il tonfo della porta che si chiude.
La chiave gira rabbiosa nella toppa.
L'ombra non demorde e ricomincia a bussare frenetica.
- Ma io voglio una stanzaaaaaa, stanzaaaaa, hai capito??? S T A N Z A!
La porta si apre nuovamente.
Questa volta si spalanca.
All'interno è stata accesa la luce e l'uomo, tutto d'un pezzo, sembra annegare beatamente in quella grazia celeste.
Testa calva.
Mascella molle.
Occhi piccoli e assassini.
Labbra carnose.
Corpo flaccido e rotondo.
La pancia budinosa e piena.
I piedi ficcati in vecchi calzini bucati.
- Bene bene... vuoi una stanza, bella signorina? Fammi vedere i soldi, poi ne parliamo.
La donna sorride tranquilla e sotto quegli occhi voraci e indagatori sfila, da dentro la stretta tasca dei pantaloni, un rotolo spiegazzato e unto di banconote.
- Fammi vedere donna. Dà qua, forza!
La donna lascia che quell'uomo spulci i soldi da cima a fondo; controlla, verifica, sorride sornione.
- Ok piccola, questi possono bastare per 'sta notte, forza entra!
Ordina mellifluo e la donna continua a sorridere.
Una stanza è tutto ciò che desidera, tutto ciò che vuole possedere al mondo in quella notte che si fa giorno.
Poche ore che le appartengano.
Le ha pagate.
- Le ho pagate.
Sussurra in un fiato mentre segue l'enorme figura su per le scale.
- Che dici donna?
L'uomo si ferma e si volta verso quella piccola strana figura.
Lei non risponde.
Guarda per terra.
Dentro sorride.
- Che cazzo dici?
- Le ho pagate... sono mie... le ho pagate... sono mie... mie... mie...
Si interrompe.
Guarda l'uomo.
Quello si mette a ridere come un animale, si volta e riprende a salire le scale.
- Questa è tutta matta! TUTTTAAA MATTTAAA! Fortuna che prima le ho spillato i soldi! TUTTAAA MATTTAAA.
Poi si rivolge alla donna.
- Forza matta cammina, che per 'sta notte ti do la stanza migliore, una stanza da regina... sì proprio così!
Scoppia di nuovo a ridere, fragoroso.
Al primo piano percorrono uno stretto corridoio.
Porte grigie.
Luce fioca.
Tappezzeria stinta a fiori e frutti
Sfioriti i primi, avvizziti i secondi.
Si ferma davanti al quattro, il numero è scritto su un foglio di carta attaccato al muro.
Gira la chiave.
Uno scrocco leggero.
Spalanca la porta.
Preme l'interruttore della luce.
- Ehi! Pazza, la porta del cesso è quella in fondo al corridoio... capito?
La donna annuisce.
L'uomo le fa un buffetto sulla guancia e se ne va, la pancia tremolante come gelatina.
La donna entra e si chiude la porta alle spalle, soddisfatta.
Quella stanza, quel tempo le appartengono.
È suo.
Tutto ciò che vede le appartiene.
Ha pagato.
Ha pagato.
Ha pagato.
- Ho pagatooooo!
Inizia a indagare.
Percorre il suo territorio centimetro per centimetro.
Nulla le sfugge.
Odora.
Tasta.
Tocca.
Palpa.
Lecca.
Mangia.
Divora.
Gusta.
Poi, sazia, si rannicchia sul bordo della misera branda.
Una branda ammuffita e sfondata.
Vecchie coperte bucate.
Le pareti color senape marcio.
I vetri della finestra anneriti.
Una sedia vuota e spelacchiata.
Un tavolino triste e monco.
Tutto le appartiene.
Tutto è suo in quella stanza.
In quel mondo, in quell'universo.
I capelli sono bagnati.
Gli abiti incollati alla pelle.
La pioggia l'ha picchiata
Il vento l'ha maltrattata.
I fiocchi di neve le hanno danzato attorno come lucciole di cristallo.
Ora ride.
Ora piange.
E' appollaiata al bordo del letto come un pappagallo su un trespolo, in attesa.
Sente qualcosa.
Il calore.
Un soffio gentile.
Un alito di vita.
Sente di star tornando umana, in quella stanza, tutta polvere e abbandono.
Il suo universo la racchiude, la partorisce di nuovo.
Lei stessa si sta partorendo, un'altra volta.
Per infinite volte torna alla vita.
I pensieri fanno a pugni nella sua testa di legno, da burattino, che si fa carne e nuovamente dà forma alla materia incolta, dà nomi, genera significati.
Le accade sempre così, in quelle stanze.
Quelle stanze di tutti e di nessuno.
Luoghi di transito.
Banchine affollate.
Flussi e deflussi delle maree.
Si riempiono, si svuotano, quelle stanze, come acqua in fragili ampolle di vetro.
Fuori di lì è tutto diverso.
Fuori ci sono quegli uomini, tutti bianchi, tutti cattivi.
Le fanno male, quegli uomini, la fanno star zitta, immobile, senza pensieri, una forma vuota, un tronco secco, colpi che risuonano nel vuoto.
Uomini in bianco.
Uomini crudeli.
Male.
Dolore.
Vuoto.
Precipita.
Si perde.
Si perde dentro e fuori.
La toccano, la spostano, la spingono, la coprono, la spogliano, la vestono, decidono per lei.
Lei non è più una bambina.
Vorrebbe gridarlo.
Ma non può perché ha sempre la bocca incollata, cucita.
I pensieri, le parole non le arrivano alle labbra, si perdono semplicemente per strada.
Perdono il sentiero; non c'è luce, ci sono troppe strade, tutto è capovolto, divelto, contorto.
Non si passa e il segnale si dissolve nella tormenta.
Ma ora capisce, comprende; la strada le si apre dinnanzi agli occhi.
Poche ore tutte per sé.
Le ha pagate, le appartengono.
Domani sarà tutto diverso.
Domani, poche ore, pochi minuti, poco tempo, verranno gli uomini in bianco, gli uomini cattivi la porteranno via, la strapperanno come un feto dalla placenta, le daranno la morte.
La faranno a pezzetti, piccoli e fragili.
Ma ora è intera, tutta d'un pezzo, in quell'utero materno che la raccoglie, la tiene in vita.
Quella stanza le dà nutrimento.
Allora si mette a pensare, pensa a tutti coloro che sono passati fra quelle quattro mura spoglie.
Ha conosciuto tempi migliori, quella stanza dimenticata.
La donna scivola giù dalla branda.
Si adagia sul pavimento.
Freddo.
Si raccoglie come un bocciolo.
Un feto nella placenta.
Quante vite sono passate per quella stanza.
E quelle vite ora la stanno nutrendo.
Inizia a sognare, immaginare; si raffigura dei volti, dei corpi agitati da pulsioni, pervasi da emozioni forti, violente, deboli; le storie prendono forma una dopo l'altra e pian piano vede emergere dal nulla uomini e donne, li vede passeggiare, muoversi, gesticolare, parlare, aggrovigliarsi su quel letto stretto e cigolante.
Qualcuno fa l'amore, qualcuno legge un libro, passeggia avanti e indietro, dorme come un bambino, si tormenta, si diverte, piange, ride.
Tutte quelle persone le fluttuano attorno come fantasmi, le sorridono, le parlano, le raccontano le loro vite e lei rimane in ascolto racchiusa nella sua placenta nutriente.
- Ho pagatooo...
- Sono mieee...
A volte urla.
Le piace urlare.
Sentire il suono gutturale della sua voce.
Urla mentre il tempo si fa stretto.
Urla mentre fuori le sirene si fanno vicine.
Vicine.
Vicine.
Sempre più vicine.
Sempre di più.
Urla e piange.
Continua a urlare mentre la placenta si lacera.
Colpi.
Su colpi.
Su colpi.
Gli uomini in bianco.
Stanno per entrare.
Stanno entrando.
Sono dentro.
- BIANCOOOooooo BIANCOOOooo BIANNCOOOoo B I A
Urla poi si spezza.
Qualcuno ha reciso di netto il filo dei suoi pensieri.
Tutto va in pezzi, si sfalda, si scioglie.
Tutto si fa bianco.
Tutto si fa silenzio.
Tutto si fa buio.
Tutto si fa morte.
La sua luce si spegne nel vuoto che la divora.
Uomini in camici bianchi fanno irruzione nella stanza e prelevano la donna che immobile, distesa al suolo, non oppone resistenza; è tranquilla, indifferente, legnosa, incosciente come un burattino di legno.
C'è trambusto, c'è movimento.
Su e giù per le scale.
Dentro e fuori quell'alberguccio squattrinato di periferia.
La gente si raccoglie dentro e fuori.
Osserva, scruta avidamente, commenta sotto voce, a fior di labbro, un mezzo sorriso di scherno.
Uno spettacolo divertente, inconsueto, per passare il tempo.
I bambini ridono e stanno a guardare.
Le ruote della barella cigolano sull'asfalto.
Le portiere si chiudono.
La sirena riprende a strillare.
Tutto finito.
Peccato che sia durato poco.
Poco.
La gente annoiata si disperde come sabbia nel vento.
Si sparpaglia, ognuno una meta precisa.
Ognuno al proprio destino.
Anche l'uomo dalla pancia tremolante si chiude la porta alle spalle.
Le luci al neon vengono spente.
Tutto torna tranquillo in quell'angolo di mondo.
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