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  Marniko
  Metafore
Racconto [25]

 

     
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Un elemento caratterizzante la metafora è la capacità di veicolare interi moti d'animo attraverso immagini spesso brevi e immediate. Per chiarire meglio questa caratteristica può essere fatto un parallelismo interessante con gli haiku: non descrivono ma si limitano ad immortalare un'apparizione, a fotografare la brevità, la leggerezza e l'apparente assenza di emozioni di un attimo. (NdA)

 

Metafora (1)

USCI' di casa ch'era ancora l'alba.
Era una cosa strana per lui annusare il profumo fresco nell'aria prima della pioggia. E il farlo lo fece stare meglio.
I marciapiedi erano quasi deserti a quell'ora, e all'ombra dei palazzi che lo avvolgevano lui si sentì come smarrito. Ricordava nulla di quello che gli era successo.
All'improvviso l'odore che sentiva addosso si confuse con quello della pioggia che iniziava a cadere, sovrapponendosi per un attimo a una specie di profumo speziato rivelatore, ambrato e intenso, che sembrò spazzar via il suo malessere improvviso, acuto.
Già, quel malessere senza tempo che gli stava crescendo dentro. La paura delle proprie adesioni, quel volere attestarsi così a lungo sulla difensiva.
Certo i suoi vent'anni non bastavano per cogliere i particolari. Ma lui già ne prevedeva abbastanza per sentirsi soffocare. Malato di illusioni com'era, minacciato dalle costrizioni che non sapeva mettere a fuoco, e soffocato dal determinismo di chi si sentiva predestinato a soccombere.
Gli scappò da ridere. Proprio così. Capitava spesso che gli scappasse da ridere quando si sentiva minacciato nell'anima. Non si stupiva affatto di questa sorta di cartina torna sole che portava con sé un potere magico che, solo lui, accettando di soffrire, poteva comprendere.
Lasciare che la sofferenza lo aggredisse lentamente come una ventosa ed esserne consapevole lo faceva paradossalmente stare meglio; la passione di questo suo sentire s'inabissava in lui come un fiume sotterraneo in piena travolgendo ogni desiderio. Anche s'egli avvertiva che tutto questo si succedeva in un modo più o meno confuso. Ma con la bellezza quasi di una vita desiderata fuori dai canoni e il divagare meraviglioso del rumore acerbo della sua giovane età.
Fu allora, nel preciso istante in cui l'autobus gli tagliò la strada, ch'egli venne folgorato dall'intuizione del momento. Lo vide sopraggiungere, dal campo lungo al primo piano, sprezzante e romantico al tempo stesso.
Vide due occhi seducenti e ammiccanti scorrergli davanti, fissandolo. E poi la scritta, svolgersi lettera dopo lettera, enorme: Calvin Klein Jeans. All we need is love.
Gli scappò da ridere di nuovo. Prima piano, poi più forte. Sempre più forte, fino a singhiozzare. Allora capì che non valeva davvero la pena di soffrire, anche per la faccia da culo di quel ragazzino che aveva appena visto sulla pubblicità esterna di quell'autobus.



Metafora (2)

NON mi piaceva affatto stare là.
Lui che continuava a rimanere in silenzio; lei che ci fissava con sguardi riverenti, a volte curiosi.
Io osservavo invece il camino, a cercare i demoni e le anime immersi in quel fuoco, come se fossero braci, della nostra perdizione. Oddio, come innocenza e passione splendevano al plenilunio di quelle fiamme ardenti!
L'uno seduto di fronte all'altra, io ero a capotavola, ci lasciavamo trasportare in una danza pericolosa di sguardi anelanti il baluardo finale. Era lo smarrimento di tre anime che, dopo essersi perse nel loro eterno peregrinare, si erano finalmente ritrovate nel loro predestinato desiderio d'amore.
Un amore folle certo, devastante nella contaminazione degli effetti. Eppure nessuno aveva un amore più grande. Assoluto, nel suo palese essere tremendo. Il tremendo bisogno di amare congiunto al pensiero della morte. E in questo significato prendeva sempre più corpo il nostro mutuo generarsi, dipendenti dell'uno verso gli altri, parte di un insieme destinato a scemare verso la devastazione.
Pur tuttavia la nostra tensione verso la morte nasceva proprio dalla consapevolezza che ogni giorno in più di vita era un giorno in meno di vita per il nostro amore.
Dunque contemplavamo il lasciarsi morire come sublimazione collettiva del nostro rapporto e attraverso il gesto reale di questo passaggio estremo, che generava amore, giungere alla purificazione massima delle nostre pulsioni. Verso e oltre la morte. Per essere eternamente vivi, immortali.
Morte che trovammo all'alba, dopo l'ultima notte d'amore insieme sulla Terra.



Metafora (3)

USCI' dalla birreria a notte fonda.
Era agitato. Rimase lì un attimo a pensarci su, fermo sulla porta. Stronzate, dirà dopo un po', iniziando a muoversi stancamente lungo i portici bagnati dall'umidità della nebbia.
Eppure il tipo di prima, in birreria, aveva qualcosa di familiare. Trovò che gli assomigliava, persino. Sentì un breve sussulto. Si fermò. Le gambe iniziarono a tremargli, e aveva freddo. Si strinse maggiormente nel bomber di colore verde militare. Forse lo aveva conosciuto da qualche fottutissima parte - ma sì, non poteva essere che così! Ma dove? Continuò a chiederselo al sordo rimbombo dei suoi passi.
Era inutile. Dannatamente inutile. Gli veniva in mente niente. Per un attimo credette di averlo incrociato al Cesar. Ma fu solo la convinzione di un momento: quel ragazzo non era tipo da frequentare compagnie e locali gay con la dark. E allora? Allora decise di non pensarci. E accelerò il passo. Adesso voleva solo arrivare a casa, e buttarsi sul letto.
Fu però girando l'angolo, che se lo trovò davanti all'improvviso. Gli occhi color smeraldo gli ricordarono quelli di un gatto nella notte. Un brivido gli corse lungo la schiena.
Il tipo gli stava già addosso. Sentì una fitta lancinante all'inguine, e un bruciore, poi un'altra fitta e un'altra ancora... E ricordò. Di colpo, ricordò! Le ginocchia cedettero, e cadde a terra definitivamente.
Lui non vedrà il tipo scomparire nella foschia. Ormai una pozza rossastra si estendeva oltre il suo corpo, riverso a pochi passi dal portone di casa.



Metafora (4)

SI ALZO' prima del solito.
Anche quella mattina sentì crescergli dentro il solito malessere; prima piano e poi sempre più insistente. Si disse che avrebbe dovuto abituarsi a convivere con quella cosa. Eppure no, gli riusciva davvero difficile venire a patti con quella sensazione, che niente aveva a che fare con il dolore fisico; cui lui del resto era abituato. Era piuttosto una specie insidiosa di fastidio: qualcosa che apparteneva agli urli soffocati dell'anima.
Sì, l'anima di quel ragazzo di appena sedici anni era incisa di ferite dappertutto. Proprio così. Una di queste lacerazioni, sempre sanguinante, era il sentimento di vergogna; il sentirsi inadeguato, non all'altezza, mai abbastanza, la insistente percezione di incompletezza di sé che soffoca fino a corrodere come un acido potente.
Riflesso nello specchio del bagno, osservandosi pigramente un foruncolo in mezzo alla fronte, proprio sopra l'arco del naso, all'improvviso egli si rese conto di non essere più lo stesso. Di non essere più il ragazzo di sempre. Si riconobbe a stento. E il volto, in certi atteggiamenti sembrò non appartenergli addirittura.
Si sciacquò abbondantemente la faccia con l'acqua fredda; poi si passò le mani umide fra i lunghi capelli corvini - li aveva ereditati dalla nonna paterna. Di nuovo si guardò allo specchio, e rimase così, con il capo leggermente reclinato, per un tempo indecifrabile e senza fine, ad osservare stralunato il foruncolo in mezzo alla fronte.
Tutt'a un tratto si protese in avanti come un ossesso; serrò gli indici attorno a quel foruncolo sulla fronte e iniziò a schiacciare, sempre più forte, liberando tutto il pus che poteva. E più schiacciava, più ne usciva di roba schifosa...
Urlò alla fine. Con tutto il fiato che aveva in corpo.

 

   
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