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  Marniko
  Metafora (5)
Racconto [36]

 

     
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Quando Tano aprì la porta della stanza lo vide subito.
Aveva il corpo affondato nella poltrona, le gambe protese in avanti, le braccia abbandonate lungo i braccioli.
A vederlo così, e con il capo reclinato, poteva sembrare morto a chiunque.
Teneva stranamente una cicca spenta ancora tra le labbra semiaperte.
Oltre al letto, in quella stanza con le imposte chiuse, c’erano solo un grande mobile antico con le vetrine oscurate di un velluto tinto di porpora, qualche riproduzione di dipinti famosi alle pareti e una scrivania d’angolo sulla quale spiccava lo schermo di un portatile acceso.
Tano vedeva tra le imposte chiuse una fessura gialla di sole. E se avesse potuto alzare l’orecchio avrebbe anche udito i rumori fuori nella strada, dalla città dove la gente si muoveva ma non si capiva bene perché, dove anch’egli avrebbe dovuto continuare a muoversi per tutto il giorno e i giorni a venire e non si capiva bene perché, dalla città nella quale anch’egli lavorava ma che non sentiva sua e non si capiva perché.
Tano rimase fermo sulla porta ad osservare tutto questo per un tempo indeterminato, con la bocca rattrappita in un broncio quasi fuori della realtà.
Dopo si avvicinò alla poltrona. Si chinò su quel tipo ch’egli era certo di non avere mai visto fino allora, un tipo né virile né femminile né ambiguo, ma che gli risultava al contempo familiare e gli assomigliava un poco; e con una mano gli alzò un braccio, che cedette mollemente. Fece prontamente lo stesso gesto con l’altro braccio. Poi si avvicinò al viso, ascoltò, toccò qua e là.
Di colpo tutte le voci e i rumori della strada scemarono fino a scomparire.
Silenzio assoluto.
Notò che la fessura tra le imposte chiuse era non più luminosa, ma tenue. Era già sera.
E nello stesso momento che tutto questo accadeva, Tano avvertì ch’era stato sospinto a salire in quella stanza perché una persona doveva raggiungerlo. Qualcuno che lui non conosceva ma che sentiva di appartenergli. A un tratto gli parve addirittura di sentire che quella persona stava salendo le scale, poi avrebbe attraversato il pianerottolo fino davanti alla porta, e dopo poco sarebbe entrata.
Ebbe per un attimo uno spasmo allo stomaco.
Si staccò di scatto dalla poltrona e dal tipo che adesso sembrava davvero morto.
Si girò verso la porta, e sentì crescergli dentro un’ansia tanto strana quanto antica. Voleva scappare ma non riusciva. Le gambe erano bloccate. Le scarpe aderivano al pavimento.
In quell’istante avvertì che quella persona era vicinissima, era sul pianerottolo, adesso era dietro la porta.
Tano rabbrividì, di paura e di emozione. E una goccia di sudore, come la scia lasciata da un’imbarcazione sull’acqua, solcò la schiena frantumandosi contro l’elastico delle mutande.
Di colpo la porta si aprì. Un sibilo di luce accecante si infilò di forza nella stanza attraversandola come la lama di un coltello elettrico fino a raggiungerlo. Qui risalì la sua figura, e lo incise avvolgendolo in un bagliore scintillante.
Era lei, non poteva essere che lei: la persona che aspettava.
Era lei, giunta per lui. Per riportarlo là da dove era arrivato.

[racconto inviato a partecipare al concorso "Buon A-Zine 13 febbraio 2009 - Speciale un anno di A.S.I.MOV]

 

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