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L'idea del romanzo me l'ha data un fatto di cronaca che mi ha coinvolto indirettamente. Il Nino del testo l'ho conosciuto veramente lavorando per le scuole. Ovviamente ho stravolto tutto. "Come un raglio che piange" è principalmente un "Romanzo comico che fa paura" o un "Noir che fa ridere".
.:: I° ATTO ::.
"IL FATTO"
Esce veloce, stupidamente va a rompersi le corna contro un muro. Certo, è in trappola, può sempre svicolare infilandosi tra le grate di un tombino che è accanto a sé. No, è maledettamente grande e nonostante i topi non abbiano coscienza dei propri limiti, questo ratto si sta amaramente pentendo d'aver mangiato carogne, spazzatura e merda sino ad assumere dimensioni di vacca. Riceve una seconda sassata capace di fregiargli l'occhio sinistro, ferita di guerra festeggiata da un sonoro schizzo di sangue arancio. Come un cieco sprovvisto del suo miope cane guida, gira su se stesso, da l'idea di volersi mordere la coda. Farebbe meglio a mettersela tra le gambe, la coda, e non badare all'impulso di lotta che è stata la rovina della sua razza, un tempo protagonista assoluta di città scartavetrate da poetiche epidemie. Passi umani gli si avvicinano con urticante lentezza. Il suo aguzzino ha la solenne teatralità dei veri bastardi. PIANO SEQUENZA: Scopriamo che la location utilizzata per questa scena di massacro, è il cortile di una scuola. L'asfalto è nero e sfaldato. Ci sono crepe che tagliano la strada in disegni rettilinei. La scuola, posta in fondo, sega in due il paesaggio composto da fatiscenti e potremo dire "circensi" costruzioni di fine anni settanta. Colorate da un pastello in stato di decomposizione (niente a che vedere con le tempere naif del liberty), richiamano alla memoria proprio questi tristi tendoni che ancora oggi si accampano ai bordi delle periferie e della provincia romana. Saltimbanchi e animali ormai destinati alla vivisezione, si confondono con la pasoliniana popolazione degli abusivi e dei baraccati di nuova generazione. CAMPO LUNGO (ripresa dall'alto): Ritto in piedi, con alle spalle un albero già stanco di succhiare vita da un rettangolo di terra ad esso offerto, v'è il carnefice, l'umano torturatore del topo. PRIMO PIANO: L'occhio del carnefice è torvo, bagnato da una luce rossa, non si sa se riflesso di sole o spettro di un aura diabolica. L'inquadratura cambia, s'allontana... Per essere un assassino è piuttosto minuto, esile, la felpa gialla lo avvolge come un pedalino bucato. Rapidamente raccoglie un altro sasso, cioè un pezzo di quell'asfalto sfaldato che ricopre il cortile. Se lo rigira tra le mani magre e sporche. Il carnefice è un tizzo di carbone, scuro in volto come su tutta la pelle, anche sulle parti non bagnate dal sole. Non sorride, non sembra percosso dal compiaciuto sadismo che il suo ruolo da cacciatore dovrebbe imporgli. Il suo viso da topo, scavato e sgradevole, è illuminato da una beata inconsapevolezza. Lo sguardo è comunque vuoto e fissa il topo con la stessa intensità con la quale un mirino potrebbe "inquadrare" il proprio bersaglio. Effettuando un primo piano al topo, quello vero, notiamo che è un attore molto più dotato del carnefice. L'occhio continua a buttargli sangue, con quello buono studia il volto dell'avversario, lo scopre improvvisamente devastato da una griglia nera. Trattasi dell'ombra di una rete da palla a volo fissata pochi metri più avanti. Concentriamoci sul ratto, ingrandiamo l'inquadratura e sveleremo l'identità del muro contro il quale si è così ingenuamente rifugiato. È la facciata della casa del custode della scuola. La casa è un baracca in cemento leggero, bassa, tetra, ridicola quanto le palazzine che gli fanno da sfondo. Presumibilmente umida e inadeguata ad ospitare le quattro persone adulte che compongono la famiglia del custode. L'abitazione dista centocinquanta metri circa dal complesso scolastico. PIANO AMERICANO: Il carnefice (ripreso sino alle ginocchia) bacia il sasso e si fa il segno della croce. La sua non è una manifestazione di magnanimità nei riguardi del ratto, bensì un rito che ha il fine massimo di rendere sacra l'esecuzione. Parliamoci chiaro, un topo di fogna è pur sempre un topo di fogna e come infimo rappresentante della di lui specie va eliminato. La derattizzazione è utile profilassi a discapito di malattie d'ogni sorta. Il carnefice non si crede un semplice disinfestatore di ratti, egli è il piccolo scalino che sta alla base d'ogni guerra santa. È il prescelto che marchierà col fuoco della Geenna l'usurpatore della bellezza terrestre (una piccola contaminazione biblica non urterà la sensibilità di nessuno, si spera ). Carnefice = soggetto normalizzatore; Ratto = elemento da normalizzare. L'annientamento fisico conduce alla normalizzazione e la normalità è l'humus, il fulcro del macrocosmo divino. PRIMISSIMO PIANO: il ratto è di profilo. Contrariamente a film, cartoni animati e romanzi di genere che usano ritrarre ratti di città con occhietti iniettati di sangue, l'occhio (quello buono) del nostro ratto è d'un blu che spezza il cuore. Ogni storia che si rispetti ha il suo "ingrediente patetico", in questa scena l'ingrediente in questione è l'occhio blu. Anche uno squittio di paura avrebbe funzionato come ingrediente patetico, di sicuro sarebbe stato più credibile d'un topo dall'occhio blu. Lo spettatore ora è colpito e coinvolto nel dramma del disgraziato ratto il quale, unico errore, è stato quello di sgattaiolare liberamente per il cortile di una scuola. Il carnefice, così come lo spettatore, ignora che il ratto, prima di questa "caccia", aveva occhi nero-fogna, come è logico che sia. La speranza è verde, la passione rossa, l'invidia gialla e la paura blu. La paura ha marchiato l'occhio (sempre parlando di quello buono) del topo, marchio che si porterà dietro sino alla prossima (e scontata) fine della sua esistenza. PRIMISSIMO PIANO: Il carnefice, con gli occhi spalancati dei pesci morti, caccia fuori la lingua e vi ci tocca la punta del naso, giochetto che fa spesso per sollazzarsi. PRIMISSIMO PIANO: Il ratto, sempre ripreso di profilo, sgrana il prodigioso occhio blu. Tutta la sua evoluzionistica intelligenza balla dentro quel unico punto. L'indignazione di un'intera razza braccata, odiata e annientata balla e bestemmia dentro quel punto. Ad un tratto, il topo ha l'aria di voler attaccare, sbuffa come il suo collega gatto e tira fuori i denti. Viene ripreso frontalmente, possiamo così confrontare i due occhi, l'occhio blu e l'occhio sfregiato. Il taglio ha cancellato completamente quest'ultimo, il sangue non ha mai smesso di fuoriuscire e sgocciolare a terra. Notiamo con relativo stupore che il blu dell'occhio è scomparso cedendo il posto al bianco della disperazione. La bocca gli si muove senza emettere alcun verso. Sembra ripetere sempre e solo una parola, un insulto indirizzato al carnefice: "Zoofobico". Sì, è questa la parola che, tradotta a nostro gusto, il ratto sta ripetendo con sdegno e rabbia sempre più evidenti. Il carnefice tira il suo proiettile d'asfalto e centra in piena schiena il ratto. Questo si sfracassa a terra in uno spezzarsi d'ossa. Un taglio verticale lo apre come un'anguria, quanto è veloce il sangue a spargersi in terra costringendo il topo a nuotare in una pozza rossa. L'animale è ancora lucido e deve infliggere l'ultimo scacco al suo avversario. Per farlo, si solleva con le zampe stremate ed arranca, esausto, due passi avanti. Il carnefice è immobile, braccia stese lungo i fianchi, guarda la sua vittima per una contorta forza d'abitudine. Il ratto tira fuori la lingua, sberleffa l'aguzzino dimostrando capacità superiori. Non è solo l'imitazione d'un altrui gesto (fatto di per se assolutamente straordinario per un animale di natura "semplice") ma è l'affermazione d'una dignità e useremo dire umanità che a lungo è stata negata ai topi, tranne quelli delle favole. Il carnefice interpreta la "linguaccia" del ratto come manifestazione di sfinimento. Lo giudica oramai spacciato. Dopo aver passato un notevole lasso di tempo a crogiolarsi in uno stato di semi-incoscienza (i cui sintomi sono stati lo sguardo assente e l'assenza di legittimato interesse per la caccia intrapresa), il corpo del carnefice viene violentemente scosso da un ondata di repulsione. Le emozioni ritornano a scorrergli dentro insieme al sangue, i suoi occhi, di colpo svegli, dovrebbero tingersi del colore della violenza: il rosso. Il carnefice guarda il topo, ne prova timore e disgusto. Avverte la rabbia dell'animale, sa che, seppur allo stremo, potrebbe morderlo ed è per questo che si disfa degli abiti di "carnefice" tornando ad essere quello che era prima dell'arrivo del topo nel cortile, ossia un ragazzino di undici anni. È quindi sintomatico per un undicenne afferrare un altro sasso o "breccola", come è uso dire secondo il vernacolo della città, e scagliarlo contro il topo. La fretta però ha guastato la riuscita del lancio, la mira viene sbagliata e la "breccola" colpisce la finestra della casa del custode. Il ragazzino ha solo il tempo di realizzare ciò che è accaduto. Dopo ogni azione c'è una reazione, e la diretta conseguenza della rottura della finestra, esce dall'uscio della casa. MANLIO (voce profonda da pentola sotto pressione): L'animaccia tua! L'undicenne finalmente avverte il pericolo e scappa. Neppure s'accorge che Manlio è caduto rovinandosi a terra perché è scivolato sul topo agonizzante. Manlio s'è rotto il femore, il ratto è finalmente deceduto. Sono le ore 14.30 del 13 novembre 2000. In steady-cam seguiamo il ragazzino inquadrandolo di dietro. Le spalle sono due punti ovali, si percepiscono da sotto la lunga felpa, s'alzano e s'abbassano con sincopato ritmo. I capelli, lunghi e neri, sono immobili come la plastica. Nonostante la corsa e la lieve brezza che si è alzata, non decidono a muoversi. Restano in fermo immagine. Ed in fermo immagine è anche il volto del ragazzo, s'è voltato a vedere se per caso il custode lo stia seguendo. Scuro è il viso illuminato dalla fissa luce grigia della preoccupazione. Il cortile della scuola abbraccia il comprensorio, compresa la casa del custode, disegnando un grande cerchio d'asfalto nero, qua e la spruzzato da tracce di brecciolino bianco. Al campo di palla a volo è dedicato un angolo a parte, confinante con una rete d'acciaio avente lo scopo di separare un grande campo di bambù dal territorio scolastico. Il campo da gioco è un rettangolo di vernice verde sporcata dalle impronte degli innumerevoli giocatori-alunni che nel corso degli anni vi si sono susseguiti. All'esatta sua metà è attraversato da una rete, reduce degli anni ottanta, intessuta da spenti fili multicolori. Continua a correre il ragazzino, per la foga sbatte i talloni contro le natiche, raggiunge la sua classe assemblata davanti l'ingresso della scuola. Stanno per salire in aula, la ricreazione è finita. La professoressa Piazzi, abbandona i suoi alunni per attraversare, con rapidi e preoccupati passi, il cortile. Sta raggiungendo Manlio. L'uomo infatti, si è messo a strillare come una comare al mercato. L'insegnate viene raggiunta dalla professoressa De Lapidis. È anziana, vestita con un completo blu da monaca molto più grande della sua taglia. Cammina a passo lungo con le sue sottili ed agili gambe da fenicottero. La schiena è buttata avanti come se stesse sorreggendo la propria croce. Intanto, dietro alle di lei spalle, la sua classe, anch'essa in procinto di salire in aula, si è pietrificata per seguire attentamente le azioni delle due donne. Seppur animata dall'eccitazione provocata dall'accaduto, anche la classe della prof. Piazzi segue le dinamiche del bizzarro incidente. Soltanto l'undicenne, sta in disparte con la faccia rivolta altrove. Interessante è soffermarci sul viso della De Lapidis, viso solcato da dossi di pelle e non da semplici rughe. Dietro il volto ancora arzillo si celano occhi stanchi e avviliti da anni dedicati all'insegnamento. Non è questo il luogo per fare polemica sulle condizioni degli insegnanti, non ancora colpiti dalla Moratti riforma. Prenderemo comunque a simbolo la figura fiera e inflessibile di questa insegnante, insignendole il titolo di "soldatessa della giovine sapienza", tanto per adoperare una definizione che cara sarebbe stata al defunto Duce. La signora è reperto storico d'una generazione uscente che tanto ha fatto per le giovini menti e che molto farà per quelle in avvenire. Ci riferiamo soprattutto alla nuova leva di insegnanti che presto, si spera, prenderà il posto di questi "vecchi" e magnifici eroi dell'istruzione pubblica. Sempre che suddetti eroi decidano, una volta per tutte, di dileguarsi dai cosiddetti. Torniamo rapidamente alla scena del soccorso. Con quanta sensuale premura la cinquantenne Piazzi si china al capezzale dell'uomo ferito! Con agili mani lo tasta in ogni dove, deve pur scoprire in qual punto v'è stata frattura. Diremo, non per pettegolezzo ma per amor di cronaca, che i componenti della famiglia di Manlio sono tutti in casa. È loro abitudine trovarsi insieme dalle 13.00 alle 15.00, ore dedicate al riposo e ovviamente al pasto. Non sono accorsi a soccorrere la montagna di portiere e non lo faranno affatto per il semplice motivo che Manlio è odiato da loro tutti, compresa l'inferma madre, l'unica, tra l'altro, ad essere giustificata per l'omissione di soccorso ai danni del figlio. Anche se fosse stata in grado di camminare, non avrebbe alzato un dito comunque. Il motivo di tale odio è da attribuire al carattere iracondo e violento del portiere, nonché al modo astioso col quale ha sempre trattato il suo unico figlio, affetto da una grave forma di schizofrenia. Il curriculum di Manlio può vantare dodici denunce, tutte a suo carico, per aggressione, ingiuria aggravata e minacce. A denunciarlo sono stati ovviamente i famigliari ed alcune persone che hanno avuto il dispiacere d'averlo incontrato. Poco c'è mancato che orde inferocite di genitori lo linciassero per aver scagliato, sui loro malcapitati figli, maledizioni e raccapriccianti ingiurie, per i più futili motivi. Se ancora continua ad esercitare la sua professione, lo deve unicamente ad un parente che lavora al ministero della pubblica istruzione. Il brutto di Manlio è che gode più protezione di un pentito mafioso. Manlio è un vulcano gonfio di fuoco capace di ricoprire coi propri lapilli intere Pompei. Anche adesso, nonostante sia costretto a vegetare a terra col faccione pendente stretto in morse di dolore, non fa altro che imprecare e alzare le mani in aria. MANLIO (urlando): che cazzo v'è toccate a professorè, chiamateme l'ambulanza! Sbrigateve che ce lascio la pellaccia! La becera teatralità del custode non sconvolge affatto la fermezza della Piazzi. Finalmente viene raggiunta da De Lapidis che ha impiegato più di cinque minuti per coprire pochi metri di strada. L'anziana professoressa di fatti cammina come se sulla terra mancasse la forza di gravità. DE LAPIDIS (gracchiando, voce di anziana caffettiera): allora, cosa s'è fatto il signorino? Non riesce proprio ad abbandonare quella sua maschera da brava signora la De Lapidis. È più forte di lei il trattare chiunque, specie chi non gode della sua stima, come un beneamato beota. Ci prova un gusto ai limiti del sadismo. Sorride d'un dolce allargarsi di labbra. Il sorriso però si spezza in più frazioni quando scopre il cadavere del ratto buttato a pochi centimetri di distanza dal portiere. L'animale è zuppo di sangue, bocca aperta e occhio (quello buono) completamente spalancato, velato da un lieve grigiore. La De Lapidis, per amore della natura, sentimento imposto dal suo ruolo d'insegnante di materie scientifiche, osserva il topo con clinica partecipazione. Vive il lutto subito, contemporaneamente apprezza la prodigiosa forma dell'animale pregustando il piacere che le procurerà la vista degli organi interni, quando sarà chirurgicamente aperto nell'aula di scienze. Manlio, brevemente ammutolito, volge lo sguardo in direzione del ratto. MANLIO (astioso): è quello che m'ha fatto scivolà! La Piazzi, che ha continuato a tastar l'uomo nonostante la di lui intolleranza, volge il capo a destra, anche lei è a conoscenza del cadavere ora. Essendo la Piazzi insegnate di lettere, per diretta conseguenza amante di poesia e letteratura, è una passionale. Come tutte le passionali, perde il controllo di sé quando è colpita da spettacoli così raccapriccianti. Caccia un urlo, lontanamente confrontabile col suono d'un allarme sismico, dopodichè schizza in piedi volgendo le spalle al topo. La De Lapidis è segretamente offesa da simile manifestazione di disprezzo, riacquista in ogni caso il sorriso prendendo in mano la situazione. DE LAPIDIS (rivolta gentilmente al custode): si è rotto una gamba? MANLIO (con occhi rossi, piagnucolando): penso propo de sì... DE LAPIDIS (come sopra indicato): vuole che chiamiamo un ambulanza? MANLIO (con ironico e sprezzante dolore): visto che nun me posso aggiustà da solo pecchè medico nun so me conviene fa venì qualcuno, che dite? La De Lapidis s'incammina in direzione della scuola. È talmente lenta che la Piazzi decide di scuotersi, alza i tacchi superando la collega con una falcata. PIAZZI (alzando la voce, senza voltarsi, rivolta alla De Lapidis): vado io, resta con Manlio. Captato il messaggio, la signora si rivolta su se stessa e a rallentatore muove i lenti passi incontro al portiere. Piazzi raggiunge i ragazzi ed entra nella scuola. Nell'atrio non v'è nessuno. PIAZZI (ad alta voce, chiama la bidella): Amalia... Amalia. Non le rispondono, ritorna fuori e si rivolge ai ragazzi. PIAZZI (calma, voce calda da burro al cioccolato): dov'è la bidella? Un ragazzino rosso, alto, paffuto sorride e si prepara ad un'educata insolenza. RAGAZZINO ROSSO (voce stridula da castrato di colore): non si chiama bidella, ma collaboratrice scolastica. La professoressa per poco non lo sodomizza con la gamba d'una sedia sopra la quale sedeva poco prima. Arriva la "collaboratrice scolastica", si sta abbottonando i pantaloni, alcuni ragazzini sghignazzano. La Piazzi ha ben altro da pensare che star a rimbrottare la bidella per quel gesto. Amalia è una signora sulla cinquantina, il volto è disfatto, incoronato da lunghi e scarmigliati capelli biondo-ritinti. PIAZZI (conciliante): Signora, Manlio s'è rotto una gamba, dobbiamo chiamare l'ambulanza. Amalia, dopo essersi abbottonata per bene, si struscia entrambe le palme delle mani contro i grossi seni da balia, intrappolati dentro una camicia d'un bianco violento. Si sentono addirittura pulsare i capezzoli. Socchiude gli occhi e guarda in direzione del custode, lo scopre disteso a terra. Al suo fianco, ritta in piedi, individua la rachitica figura della De Lapidis, con la perenne schiena piegata in avanti. AMALIA (continuando a guardare i due, voce che sembra impastata con molliche di pane e fagioli): proprio nun ce se riesce ad arzallo, v'è? PIAZZI (scostante, un quarto inviperita): e no! La chiamiamo sta ambulanza o no? Senza dire una parola, la bidella imbroncia la bocca e fa spallucce, dopo aver guardato Manlio per l'ultima volta rientra dentro, si spera con l'intento di compiere il suo dovere. La professoressa viene tempestata di domande dai ragazzi. Ignora tutti e s'incammina dal ferito con passo fermo, felino. Il fine pubblico maschile, non sarà certo indifferente al rassicurante ancheggiare della donna. Dai fianchi larghi ed accoglienti s'erge un busto leggermente abbozzato da spessi strati di carne. La gonna verde, di tessuto non ancora adatto all'inverno vero, le scopre due polpacci tondi, colorati e sodi come pesche d'inizio stagione. Le signore avvezze a codesto tipo di scarpa, ben sanno che, il camminare su tacco, è un ottimo esercizio per lo sviluppo della gamba tutta, eccezion non fatta per il poc'anzi citato polpaccio. Le braccia le oscillano lievemente ed una mano vola a lisciare la frangetta di fresco tagliata. La De Lapidis è rimasta a vegliare l'uomo senza abbandonare la propria posa. Scuote muta la testa bigia, ha la iettatrice convinzione che il danno sia irreversibile. Piazzi s'è posta alla destra di Manlio, la De Lapidis continua a rimanere alla sua sinistra. Il custode è letteralmente "fiancheggiato" dalle due donne. DE LAPIDIS (chiudendo gli occhi, tragica e profetica intonazione): S'è rotto il femore! Piazzi annuisce col capo, non bisogna essere medici per capire una cosa del genere. La professoressa, contrariamente a ciò che le detta l'istinto di sopravvivenza, chiede al portiere un resoconto sulla dinamica dell'incidente. Manlio, com'è prevedibile per chi lo conosce, comincia a bofonchiare iracondo, gesticola svelto e violento, scomoda santi e s'appella a vocaboli di colorita foggia. Tutto dice e tutto fa, tranne l'esporre chiaramente i fatti. Del farfugliato racconto rimane chiaro soltanto un punto: la colpa dell'intero sfacelo è da attribuire ad un bambino. La Piazzi analizza la facciata della casa con lo zelo del perito immobiliare, nota per la prima volta la vetrata rotta. Il quadro della faccenda comincia a farsi completo. PIAZZI (rassegnata, con braccia incrociate): Lei ci faccia capire chi è che poi ci pensiamo noi. Il colossale portiere inizia a fantasticare sul genere di punizioni alle quali andrà incontro il teppistello. Questi pensieri cominciano a rallegrarlo. Lo farebbe strare ancor meglio però, occuparsi di persona del piccolo. Sa bene che, per una serie di proibizioni legali, il "criminale" non subirà alcun tipo di punizione fisica da parte del corpo docenti. Eccezion fatta forse per il padre del ragazzo, se è un vero padre, non lo lascerà di certo illeso dopo aver saputo di quale genere di crimine s'è macchiato il figlio.... Alle loro spalle s'apre l'uscio di casa, n'esce un palo di ragazzo sui ventotto anni, magro e lungo, pizzetto ben curato, testa debitamente rasata. Volge un divertito sguardo all'uomo, ficca le mani in tasca e si appropinqua in direzione del cancello laterale, comunemente chiamato "cancello di servizio". Le donne abbassano lo sguardo e fanno finta di niente non per pudore o riservatezza, bensì a causa d'un incontrollato timore delle famigerate reazioni di Manlio. Di contro, l'uomo sembra non curarsi del figlio. Lo spettatore ha senz'altro capito che il ragazzo è il figlio del custode, affetto da schizofrenia. Sempre dall'uscio, esce correndo una grassa donna bruna coperta da un'enorme vestaglia a righe. DONNA GRASSA (voce molto simile a quella di Manlio, solo leggermente più stridula. Si rivolge al ragazzo): senti a mamma, comprame pure du confezioni de sale grosso. RAGAZZO (grugnendo): va bè... Più che schizofrenico, il ragazzo sembra incarnare lo stereotipo del figlio strafottente e nulla facente. La donna rientra trafelata in casa, neanche fa caso al moribondo steso a terra. Il ragazzo se n'è gia andato. La donna, s'è capito, è la moglie di Manlio. S'era già parlato dell'odio che la famiglia nutre nei confronti del portiere... L'ambulanza arriva a sirene spente. Essendo il portiere fuori gioco, le professoresse sono obbligate ad aprire il cancello, adempiendo così ad un dovere che non è previsto dal loro contratto. L'ambulanza entra in cortile quasi in punta di piedi. Una coppia di barellieri-infermieri- autisti si getta con sonnolenza sull'omaccione, senza quasi far domande lo caricano dentro. Per i due, metter quella stazza di cristiano sulla barella è stata impresa titanica. Fortunatamente, non c'è alcun tipo d'ostacolo in grado di rallentare l'opera di chi si prodiga per il bene del cittadino. Cambiamo bruscamente scena. Siamo in classe. La professoressa Piazzi poggia le sue reverende chiappe sul piano della cattedra. Con le braccia incrociate, dedica ad ogni ragazzino seduto dietro il proprio banco, un occhiata di paternalistica offesa. PIAZZI (agra, melanconica, credibile): Sono stata offesa! Sì... (pausa interminabile e priva di motivo) offesa dalla vostra mancanza di buon senso. Lo spettatore sarà di certo annoiato dalle prediche alla "Libro cuore". Il motivo di questa strigliata è ben evidente. Manlio non ha fatto in tempo a dire chi dei ragazzini abbia creato tutto quel inferno. La Piazzi vuole stanare il colpevole usando l'inutile arma dell'omelia. I ragazzi sono seduti in maniera scomposta, taluni hanno le mani piantate in faccia per sorreggersi il capo, altri sono a gambe aperte, con la sedia chilometri distante dal banco. C'è chi, folgorato da guizzi artistici, aggredisce il proprio diario con scritte od osceni graffiti; illustrazioni generalmente riservate alle porte ed alle pareti dei bagni maschili. L'insolente e lentigginoso bambino dai capelli rossi, nascosto dietro un quaderno ad anelli, si esercita a ghignare come un cattivo da fumetti. L'ex carnefice è seduto in ultima fila. Si tocca nervosamente i capelli carbone. È spacciato. Gli conviene confessare tutto, così facendo si risparmierà l'angosciante rinvio della propria condanna a morte. Il custode, una volta tornato, lo smaschererà davanti a tutti gli insegnati e per settimane lo terrà d'occhio come se fosse il peggior assassino della terra. Un destino che, ahinoi è toccato a numerosissimi alunni della scuola. Nei venticinque anni di permanenza, il custode ha costretto l'istituto a vivere un interminabile e logorante "maccartismo" che non ha risparmiato nessuno, dai professori ai collaboratori scolastici, dai segretari ai presidi. A causa delle sue intemperanze, si sono susseguiti più di venti dirigenti scolastici, quasi uno all'anno. D'altronde l'abbiamo detto anche prima, Manlio ha ben più di qualche santo in paradiso, anzi al ministero... Coraggiosamente, l'undicenne alza la mano interrompendo l'inesauribile discorso della signora. UNDICENNE (vocetta da undicenne): so stato io... ma non volevo rompè la finestra... PIAZZI (severa e paziente, butta il busto avanti mettendo le mani sui fianchi, tipica posa da vaso cinese): parla italiano per cortesia. L'undicenne esegue e, in un italiano manierista, espone la dinamica dei fatti. Ribadisce che non era sua intenzione rompere la finestra. Lo giura, in fondo voleva soltanto prendere a sassate il topo. PIAZZI (alzando la voce): ma che giustificazione è questa! Chi t'ha detto d'andare ad ammazzare il topo! L'undicenne non risponde. Ha lo sguardo basso. Da questo momento non si cura più della ramanzina della professoressa, pensa esclusivamente alla reazione di suo padre. Un padre comprensivo, di profondo spessore morale. Il ragazzo sa già che non verrà praticata su di lui alcun tipo di violenza. Il genitore cadrà, invero, in un mutismo nero ed assordante, sintomo della scoraggiante delusione provata per la cattiva condotta del figlio. Dire che il bambino, al silenzio ombroso del padre, preferisca un potente ceffone sarebbe una eresia di prim'ordine. Certo è che questo lato del carattere dell'uomo non lo ha mai capito e più si va avanti con gli anni, più ne prova timore. Manlio non sarà certo contento, la sua speranza d'una lezione data a suon di legnate è destinata a frantumarsi. PIAZZI (calma, rivolta al ragazzo): chi ti viene a prendere? UNDICENNE ( sguardo basso, voce alta, sinceramente rammaricato): mamma. PIAZZI: dovrò parlare con lei. L'undicenne accetta la scontata doccia fredda con un cenno della testa, anzi, dei capelli. PIAZZI: sei stato saggio a parlare Nino. Nino. Questo è il nome del ragazzino. Lui è Nino Sant'Uomo, classe 1989, iscritto al primo anno, sezione D, della scuola media statale "A.F." quartiere Monte spaccato, a Roma, zona Boccea, o Aurelia, vicino via "dell'Acqua fredda" per intenderci. Nino è in realtà un diminutivo. Il nome di battesimo e purtroppo anche quello segnato all'anagrafe è Marziano. Il nonno paterno si chiamava così, essere a conoscenza dell'origine di questo pittoresco nome è cosa di scarsissimo interesse per la nostra storia. Più interessante è sapere come da Marziano si sia arrivati a Nino. Diremo rapidamente che la mamma di Nino, quando questi aveva poco più di quattro mesi, per divertimento suo e del marito affibbiò al pargolo l'epiteto di Marzianino. "Ciao Marzianino" diceva la mamma. "Bello, bello Marzianino" faceva la nonna. "Marzianino... dov'è Marzianino?" chiedeva scherzosamente il papà. "Marzianino bello de' nonni" urlava il nonno. "Marzianino, Marzianino" ripeteva il merlo indiano che avevano in casa (morì per epatite virale qualche mese più tardi, il nonno era riuscito a fargli mangiare delle cozze avariate). Fortuna ha voluto che nessuno dei suoi compagni è mai venuto a conoscenza del suo nome di battesimo. Gli insegnanti, sia alle elementari che alle medie, sono sempre stati gli unici ad averlo saputo e si sono tenuti ben alla larga dal mettere a conoscenza i bambini di tal segreto. Hanno così risparmiato a Nino un bel trauma.
[FINE PRIMA PARTE] |
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